martedì 30 settembre 2014

A proposito del Seveso

Una notizia importante per il nostro territorio:

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lunedì 29 settembre 2014

La Direzione PD sul Jobs Act

Ecco l’ordine del giorno sul Jobs Act approvato dalla Direzione Nazionale del Pd con 130 voti favorevoli, 20 contrari e 11 astenuti:
Approvando la relazione del Segretario, il Partito Democratico non può perdere questa occasione per realizzare un mercato del lavoro che estenda i diritti e le tutele a quei lavoratori che oggi non li possiedono e dove nessuno sia più abbandonato al proprio destino.
Intendiamo raggiungere questo obiettivo con una riforma di sistema che estenda i diritti nel rapporto di lavoro a chi oggi non ne ha di adeguati e universalizzi le tutele nella disoccupazione; aumenti la produttività favorendo la mobilità dei lavoratori verso impieghi che migliorino il loro reddito e le loro prospettive, senza scaricare solo su di loro i costi di questo aggiustamento.
Per questo sosteniamo il Governo a guida del Partito Democratico a mettere immediatamente in campo strumenti coerenti con questi obiettivi.
1. Una rete più estesa di ammortizzatori sociali rivolta in particolare ai lavoratori precari, con una garanzia del reddito per i disoccupati proporzionale alla loro anzianità contributiva e con chiare regole di condizionalità attraverso un conferimento di risorse aggiuntive a partire dal 2015.
2. Una riduzione delle forme contrattuali, a partire dall’unicum italiano dei co.co.pro., favorendo la centralità del contratto di lavoro a tempo indeterminato con tutele crescenti, nella salvaguardia dei veri rapporti di collaborazione dettati da esigenze dei lavoratori o dalla natura della loro attività professionale.
3. Servizi per l’impiego volti all’interesse nazionale invece che alle consorterie territoriali, integrando operatori pubblici, privati e del terzo settore all’interno di regole chiare e incentivanti per tutti.
4. Una disciplina per i licenziamenti economici che sostituisca l’incertezza e la discrezionalità di un procedimento giudiziario con la chiarezza di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità, abolendo la possibilità del reintegro. Il diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie.
Video degli interventi di apertura e di chiusura di Matteo Renzi in Direzione Nazionale»

Il Jobs Act è il disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro, nella versione approvata dalla Commissione Lavoro del Senato (scheda in PDF).
Il disegno di legge si pone l'obiettivo di realizzare riforme di grande portata innovativa, attraverso l'esercizio di apposite deleghe conferite al Governo, quali:
1) il riordino della disciplina degli ammortizzatori sociali;
2) la riforma dei servizi per il lavoro e delle politiche attive;
3) il completamento del processo di semplificazione delle procedure e degli adempimenti in materia di lavoro;
4) il riordino delle forme contrattuali attualmente vigenti in materia di lavoro;
5) il rafforzamento delle misure di sostegno alla maternità e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Scheda esplicativa del Jobs Act con le norme approvate nella Commissione Lavoro del Senato (file PDF)»

Intervento in Senato di Franco Mirabelli durante la discussione sul Jobs Act» (Video dell'intervento»)

Per fare chiarezza e approfondire ulteriormente l'argomento, segnaliamo anche la "nota in materia di licenziamenti" a cura del Gruppo PD del Senato (file PDF)»

Analisi del Sole 24 Ore: «Jobs Act», obiettivo estendere le tutele di 12 milioni di lavoratori»

domenica 28 settembre 2014

I risultati delle votazioni per la città metropolitana

A Palazzo Isimbardi, sede della Provincia di Milano, si sono concluse le operazioni di spoglio e del conteggio del voto ponderato del primo consiglio metropolitano di Milano.
Quattordici dei 24 consiglieri che faranno parte della nuova assemblea appartengono alla lista 'Centrosinistra per la città metropolitana', che riunisce Pd, Prc, Sel e ha preso il 57 per cento dei voti. Hanno votato 1.657 fra sindaci e consiglieri comunali su 2.054 aventi diritto al voto (l'80,6 per cento).
Questi i consiglieri eletti, in ordine di votazione, con il corrispettivo quoziente elettorale (in queste elezioni il peso del voto variava a seconda della grandezza del comune dell'elettore). Alla lista 'Centrosinistra per la città metropolitana, come si è detto, sono andati 14 seggi: Alberto Centinaio (sindaco di Legnano) con 3.480 voti; Eugenio Comincini (sindaco di Cernusco) 3.243; Maria Rosaria Iardino (consigliere comunale a Milano) 3.015; Lamberto Bertolè (consigliere comunale a Milano) 2.954; Pietro Bussolati (consigliere a Melzo) 2.877; Pietro Mezzi (consigliere a Melegnano) 2.822; Rita Parozzi (consigliere a Bresso) 2.642; Romano Pietro (sindaco di Rho) 2.639; Patrizia Quartieri (consigliere a Milano) 2.591; Michela Palestra (sindaco di Arese) 2.413; Arianna Censi (consigliere di Opera) 2.257; Monica Chittò (sindaco di Sesto San Giovanni) 2.215; Pierluigi Arrara (sindaco di Abbiategrasso) 2.199 e Filippo Paolo Barberis (consigliere a Milano) 2.153.
Due gli eletti della Lega Nord: Luca Lepore (consigliere comunale a Milano) 2.343 ed Ettore Fusco (sindaco Opera) 2.254. La lista civica 'Costituente per la partecipazione - la città dei Comuni' ha espresso due seggi: Roberto Biscardini (consigliere a Milano) 2.012 e Marco Cappato (consigliere a Milano) 1.723. Infine alla lista 'Insieme per la città metropolitana' sono andati sei seggi: Marco Alparone (sindaco si Paderno Dugnano) 4.065; Alberto Villa (consigliere a Pessano con Bornago) 3.408; Armando Vagliati (consigliere a Milano) 2.892; Marco Osnato (consigliere a Milano) 2.799; Giuseppe Russomanno (consigliere a Trezzano sul Naviglio) 2.412 e Luciano Guidi (consigliere a Legnano) 2.164.

lunedì 22 settembre 2014

Niente hub elicotteristico a Bresso

Con gioia possiamo rassicurare tutti i cittadini della zona di Bresso e i frequentatori del Parco Nord: il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, rispondendo ad un'interrogazione in Senato, ha fatto sapere che non verrà costruita nessuna opera aggiuntiva a quelle già previste nell'area dell'aeroporto di Bresso e, soprattutto, non ci sarà alcun hub elicotteristico.


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domenica 21 settembre 2014

Sul Jobs Act

Riflessione del senatore Franco Mirabelli


Credo che i toni che sta assumendo la discussione sulla legge delega sul lavoro dentro e fuori il PD non aiutino a capire di cosa si sta discutendo e, soprattutto, rischino di dare una rappresentazione della riforma e dei suoi obbiettivi lontana dalle reali volontà, più volte affermate dal governo e riportate nel testo della norma in discussione.
Quindi, innanzitutto va sgombrato il campo da equivoci e vanno ricostruiti i reali obbiettivi che la legge si propone.
Primo: Non si tolgono tutele a chi le ha. I nove milioni di lavoratori che hanno un contratto a tempo indeterminato non saranno toccati dalla riforma, chi parla di riduzione delle tutele per chi lavora dice una cosa non vera e chi racconta di un tentativo di omogeneizzare al ribasso i diritti dei lavoratori retrocedendoli tutti in serie C fa propaganda; l'art.18 e il diritto al reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa non verrà meno per i contratti in essere.
Secondo: Al contrario l'obiettivo è estendere le tutele a chi non ne ha, ai nove milioni di lavoratori con contratti precari. La legge delega riforma gli ammortizzatori sociali estendendo a tutti i lavoratori precari l'accesso al reddito garantito dall'Aspi per chi perde lavoro.
L'allargamento della platea dei tutelati sarà finanziata in parte dalle aziende e in parte da finanziamenti pubblici e, per questo, già nella prossima Legge di Stabilità saranno stanziati un miliardo e mezzo di euro. Oltre a ciò saranno estesi i diritti sulla maternità a tutti i contratti.
Terzo: La legge delega prevede la riduzione a poche unità dei contratti di lavoro e la scelta del contratto a tempo indeterminato come contratto prevalente da incentivare. Si tratta di costruire una normativa in cui non esistono contratti più convenienti degli altri dal punto di vista del costo per le aziende se non i contratti a tempo indeterminato.
Con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti si può raggiungere questo obbiettivo. In questo modo si riduce la precarietà e si dànno più certezze e più stabilità a lavoratori e aziende, mettendo i primi nella condizione di stare più a lungo in azienda con la prospettiva di poterci restare e le seconde in una situazione in cui potrà avere incentivi e più certezze per programmare futuro e investimenti.

Cose importanti, quindi, e che tutti abbiamo interesse a valorizzare perché definiscono il senso di una riforma necessaria per il Paese. Non c'è solo questo: c'è anche la delega per riformare i servizi che devono far incontrare domanda e offerta di lavoro, si interviene anche sui tempi di vita, ma la riforma sta soprattutto in queste cose, qui si interviene concretamente su precarietà e su chi il lavoro non c'è l'ha.

Certo, ci sono questioni che richiedono ancora approfondimenti. Ma serve una discussione sul merito. Non servono divisioni caricaturali, non c'è una divisione tra chi difende e chi vuole liquidare tutele e diritti, anzi.
Serve discutere del merito e alcune scelte non sono definite né lo saranno nella delega ma il senso di marcia e gli obbiettivi sono chiari.
Il confronto deve partire dai dati di realtà, dalla necessità di invertire una situazione per cui oggi solo il 16% dei nuovi assunti sono assunti con contratto a tempo indeterminato, dalla constatazione che in questi anni ci sono stati centinaia di migliaia di licenziamenti nonostante l'art.18. Certo, non può essere messo in discussione l'obbligo di reintegro per i lavoratori licenziati per motivi discriminatori e non lo sarà. Bisognerà discutere - questo è il nodo - nel contratto a tutele crescenti, su quali strumenti di tutela dai licenziamenti senza giusta causa saranno introdotti e se sarà previsto il reintegro o no. Dopo l'approvazione della delega ci sarà tempo e modo per affrontare questa questione.
Ma, al di là delle discussioni aperte, non dobbiamo perdere di vista il valore complessivo della riforma, di una idea di mercato di lavoro che vuole aggredire i nodi delle diseguaglianze e della esclusione dalle tutele. Il Jobs act è una straordinaria occasione che non possiamo perdere, descrive una riforma necessaria per il Paese ma, soprattutto, serve per dare diritti e tutele a chi oggi non ne ha.

sabato 20 settembre 2014

In merito alla discussione sul Jobs Act

Segnaliamo alcuni articoli suggeriti da Vitto Tediosi sul tema del lavoro e della discussione in atto in questi giorni:

Jobs Act, l’emendamento del governo
Il testo votato dalla commissione Lavoro di Palazzo Madama che prevede, tra l’altro, anche il contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti
Ecco di seguito l’emendamento 4.1000 al ddl di delega al governo (S1.428) per la formulazione del decreto sul lavoro, il cosiddetto «Jobs Act». 
Il testo presentato dal governo è stato approvato dalla commissione Lavoro del Senato. L’esecutivo, secondo quanto indicato nell’emendamento, dovrà elaborare entro sei mesi il decreto legislativo che prevede, tra l’altro, il contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti, lo strumento che di fatto supera le tutele previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori 
«Art. 4. – (Delega al Governo in materia di riordino delle forme contrattuali e dell’attività ispettiva).
–Allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi, in coerenza con la regolazione comunitaria e le convenzioni internazionali:
a) individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime tipologie contrattuali;
b) previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio;
c) revisione della disciplina delle mansioni, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento;
d) revisione della disciplina dei controlli a distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore;
e) introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano sociale;
f) previsione della possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali, in tutti i settori produttivi, attraverso la elevazione dei limiti di reddito attualmente previsti e assicurando la piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati;
g) abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative;
h) razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva, attraverso misure di coordinamento ovvero attraverso l’istituzione, ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, di una Agenzia unica per le ispezioni del lavoro, tramite l’integrazione in un’unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS e dell’INAIL, prevedendo strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle ASL e delle ARPA.».


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L'articolo 18 e il marketing politico - di Ilvo Diamanti (La Repubblica, 23 settembre 2014).

Il disegno di legge sul lavoro, approvato, nei giorni scorsi, in Commissione al Senato, rispetta una priorità del governo. Ma l’ipotesi di superare l’articolo 18, in particolare, risponde a un obiettivo politico — prima ancora che economico — di Matteo Renzi. Costruire il suo partito. Post- ideologico e post-berlusconiano. Il post-partito di Renzi. Il PPR oppure il PdR. Che vada oltre il Pd. Il dibattito sull’art. 18, infatti, ha ri-evocato e ri-sollevato antichi steccati. Fra la sinistra e il resto del mondo. Anche se l’art. 18, nella realtà, ormai, è poco utilizzato. Gran parte delle vertenze aziendali aperte su questa base si conclude con un accordo fra le parti. Senza considerare che il segno di questa norma è, quantomeno, ambiguo e ambivalente. Perché esclude ampi settori del mercato del lavoro. Peraltro, i più deboli: gli occupati delle piccole imprese, i precari e gli intermittenti. I giovani.
Non a caso, nel 2003 venne promosso un referendum per superarne i limiti. Per iniziativa di gruppi e soggetti di sinistra. Tuttavia, il valore dell’articolo 18 è ad alto contenuto simbolico. Costituisce, infatti, una sorta di bandiera della Legge 300. Lo Statuto dei lavoratori. Per questo ogni tentativo di metterci mano, non importa in che modo e a quale titolo, suscita tante reazioni. Com’è avvenuto, puntualmente, anche in questa occasione. Proprio per questo Renzi ha deciso di intervenire sull’art. 18. Proprio in questo momento. Al di là dell’efficacia e del contenuto del provvedimento. Perché è utile, funzionale a marcare confini e limiti del “suo” partito. Contro i nemici interni ed esterni.
Penso, peraltro, che egli non abbia in mente di riprodurre l’esperimento di Tony Blair, come molti hanno osservato. Non gli interessa, cioè, costruire un NewPd, più lib che lab. Ma andare “oltre” il Pd e il suo tradizionale bacino elettorale di Centro-Sinistra. Un po’ com’è avvenuto alle recenti elezioni europee, quando il “suo” Pd ha conquistato quasi il 41% dei voti. Quattro su dieci: “orientati al leader”. Circa il 17%, sul totale dei votanti, cioè, ha votato per Renzi piuttosto che in base all’appartenenza al partito (indagine post-elettorale Demos- LaPolis, luglio 2014). E ciò gli ha permesso di sconfinare rispetto ai territori di caccia della sinistra. Non a caso, è risultato primo partito praticamente dovunque, in Italia (con le sole eccezioni di Sondrio, Isernia e Bolzano). Ma soprattutto, ha sfondato nelle province del Nord e nel Nord Est. Dunque, fra i lavoratori autonomi: artigiani e commercianti, tradizionalmente attratti dai forzaleghisti (per echeggiare, una volta di più, Edmondo Berselli). Oltre che fra le componenti sociali popolari: operai e disoccupati. Che alle politiche del 2013 avevano privilegiato il M5s. Renzi, dunque, ha rotto il muro anticomunista. E quello della protesta (anti) politica. Per questo il suo consenso personale, all’indomani delle europee, si è allargato, ben oltre il livello, molto ampio, del voto. Ha raggiunto, cioè, il 74%. Mentre la fiducia nel governo ha sfiorato il 70%. Cioè, oltre il 90% fra gli elettori del Pd, ma tra il 55% e il 60% anche nella base dei partiti di Destra: Fi, Lega e Fdi.
Oggi, però, le cose sembrano cambiate. Dopo l’estate, infatti, il consenso nei confronti del governo e del premier ha subito un brusco e sensibile arretramento (Atlante Politico di Demos, settembre 2014). Superiore a 10 punti. Così, Renzi appare ancora forte, nel Paese. Ma soprattutto nel centrosinistra. Fra gli elettori del Pd resta vicino al 90%. Ma crolla (soprattutto) a destra: nella base di Fi e degli altri partiti di centrodestra (20-30 punti in meno). Oltre che fra gli elettori del M5s (dal 36% a 20%).
Allo stesso tempo, nelle stime di voto, il Pd resta saldamente attestato al 41%. In altri termini, come abbiamo sostenuto nei giorni scorsi, Matteo Renzi oggi appare leader indiscusso del Pd. E del Centro-sinistra. E qui è il problema. Perché, oggi, per la prima volta, dopo molto tempo, fatica a intercettare i consensi di destra. E, sul piano sociale, il voto dei ceti medi del Nord. Che cominciano a mostrare impazienza, in attesa delle riforme promesse. Mentre deve fare i conti con le resistenze di un Parlamento eletto “prima” del suo avvento alla guida del partito e del governo. In particolare, deve affrontare le trappole disseminate dal Pd, ma anche da Fi, come si sta verificando di fronte all’elezione dei due nuovi giudici della Corte Costituzionale. D’altronde, il progetto del PdR si rivolge anche a Fi. È questo il significato del dialogo aperto con Berlusconi. A Renzi non interessa negoziare o federare Fi. Ma svuotarla. Com’è avvenuto con i Centristi e l’Ncd (fra i suggeritori del provvedimento). E ciò spiega le tensioni interne ai parlamentari di Fi, quando si tratta di votare insieme al Pd, come se si appartenesse a un unico soggetto politico. Appunto… Così, per Renzi, l’articolo 18 diventa un’occasione, anzi: l’occasione, per superare le divisioni interne al PdR. Per costringere alla ragione il Pd — e i dissidenti. Per riaprire la comunicazione con la Destra. E soprattutto con gli elettori di Fi. E con le componenti sociali della piccola impresa e del lavoro autonomo del Nord. I forza-renziani (come li ha chiamati Fabio Bordignon). In modo da “isolare” il dissenso dei parlamentari di Fi.
Così Renzi insiste — e insisterà ancora — su argomenti ad alto tasso simbolico, relativi al lavoro e, probabilmente, domani, all’etica (come le unioni civili tra omosessuali). Ma accentuerà ancora la connessione fra comunicazione e politica. Fra governo e linguaggio. Marcando le differenze fra sé e gli altri “politici”. Fra sé e le “burocrazie”. Non solo della pubblica amministrazione, ma anche del Sindacato e di Confindustria. In attesa di potersi, davvero, misurare con gli altri, in nuove elezioni. Quando, come ora, si presenterà più antipolitico di Grillo, più berlusconiano di Berlusconi, più “diretto”, nel rapporto con il “popolo”, rispetto ai leader del suo e degli altri partiti.
Il vero problema, per Renzi, è che, per arrivare al voto con una nuova legge elettorale e con risultati da rivendicare, deve passare attraverso questo Parlamento, misurarsi con questi partiti. Con questi leader. Che, di certo, non si faranno rottamare senza resistere. D’altronde, per agire in Parlamento e per correre alle elezioni, serve un partito. Ma il PdR, per ora, è un partito che non c’è. Certo: ha un volto, uno stile. Un linguaggio. Ma per vincere, per affermarsi: non basta.


Quali tutele? E quanto crescenti? - Tito Boeri e Pietro Garibaldi (da lavoce.info)
È ancora molto lunga la strada della legge delega di riforma del mercato del lavoro. Ma è bene che sin d’ora si discuta nel merito di ciò che ci sarà nei provvedimenti di attuazione, anche in rapporto ai provvedimenti già varati dal Governo Renzi. Iniziamo dal contratto a tutele crescenti.
LA LEGGE DELEGA
L’approvazione dell’articolo 4 della legge delega in commissione al Senato ha messo la riforma del lavoro al centro dell’agenda di Governo. La legge delega, nella versione votata dalla commissione, rappresenta un importante passo in avanti per riformare il mercato del lavoro italiano.
La necessità di risolvere il dualismo nel mercato del lavoro è ben nota ai lettori di questo sito. Con l’emendamento presentato la scorsa settimana, il Governo ha ora aperto la strada ad almeno due importanti riforme “a costo zero”: il contratto a tutele crescenti e il salario minimo. La legge delega riguarda anche altri aspetti dei rapporti di lavoro (tra cui il cosiddetto demansionamento e i controlli a distanza) mentre ha alcune importanti omissioni (quali la rappresentanza dei sindacati e il rapporto fra i diversi livelli di contrattazione). Trattandosi di una legge delega, il testo si limita a enunciare principi generali senza entrare nei dettagli della riforma. Sappiamo bene che nella legislazione del lavoro questi dettagli sono fondamentali.
Per parlare di vera e propria riforma dovremo perciò aspettare 1) l’approvazione del testo finale in aula al Senato e poi in commissione e aula alla Camera; 2) il successivo licenziamento dei decreti delegati da parte del ministro del Lavoro. Bene comunque che sin d’ora si discuta nel merito di ciò che ci sarà nei provvedimenti di attuazione della legge delega in rapporto anche ai provvedimenti in materia di lavoro varati nei mesi passati dal Governo Renzi. Cominceremo dal contratto a tutele crescenti per poi occuparci di salario minimo e di contrattazione.
IL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI…
Il testo di legge delega fa riferimento a un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti per i nuovi assunti. Si tratta di un principio e un’idea su cui ci siamo personalmente impegnati su questo sito da quasi dieci anni (si vedano “Il testo unico del contratto unico“, “Tutti i vantaggi del contratto unico” ed il libro “Un Nuovo contratto per tutti“, edizioni Chiare Lettere). Occorre però essere molto attenti ai dettagli. Il testo non specifica ancora in alcun modo di quali tutele si parli e di come le stesse tutele varieranno con l’anzianità di servizio. Alcuni esponenti della maggioranza (appartenenti per lo più al Ncd) sostengono che il nuovo contratto contemplerà il reintegro soltanto per il licenziamento discriminatorio ed escluderà il reintegro in caso di licenziamento per motivi economici, sostituito completamente da un indennizzo monetario. Il Partito democratico sembra invece spaccato al suo interno tra coloro che auspicano che il nuovo contratto mantenga, a una certa anzianità di servizio, anche la reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa e coloro che sostengono che il nuovo contratto non debba considerare la cosiddetta “reintegra” o “tutela reale” oggi offerta dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ai dipendenti a tempo indeterminato di imprese con più di 15 addetti, fatto salvo il caso di licenziamento discriminatorio.
…IL CONTRATTO UNICO DI INSERIMENTO
La nostra personale posizione è riassunta nel disegno di legge sottoscritto dal senatore Paolo Nerozzi (e altri cento senatori) nel 2010 e poi presentato anche alla Camera da Pier Paolo Baretta. Il disegno di legge istituisce il “contratto unico di inserimento”. Si tratta di un contratto a tempo indeterminato fin dalla sua stipula con tutele crescenti. Il contratto prevede due fasi che si succedono automaticamente a tre anni dalla stipula, senza alcun atto amministrativo o conversione.
La fase di inserimento – che nella nostra proposta dura tre anni – e la fase di stabilità. Nella fase di inserimento, il reintegro è concepito soltanto per il licenziamento discriminatorio, mentre il licenziamento economico è consentito dietro un indennizzo pari a cinque giorni lavorativi ogni mese di anzianità aziendale, raggiungendo così sei mesi di salario dopo tre anni di anzianità. Nella fase di stabilità vige la normativa vigente, inclusa la reintegra nelle imprese con più di 15 dipendenti.
Riteniamo fondamentale che la fase di inserimento non sia inferiore a tre anni e che preveda un congruo indennizzo. L’errore più grande che si può commettere è quello di considerare la fase di inserimento come una semplice estensione del periodo di prova. In quel caso, il lavoratore potrebbe essere licenziato senza alcun indennizzo. Al tempo stesso, riteniamo che la fase di inserimento possa anche essere estesa oltre i tre anni, con un progressivo aumento dell’indennità da corrispondere al lavoratore in caso di interruzione per motivi economici. Ad esempio, si potrebbe arrivare a una fase di inserimento di sei anni con un indennizzo che arriva al termine di questo periodo a un anno di salario. Siamo profondamente convinti che dopo un periodo di inserimento sufficientemente lungo, le imprese troverebbero comunque poco conveniente interrompere un contratto di lavoro con un lavoratore ormai formato, per di più dovendogli corrispondere un anno di salario. Le imprese vivono per massimizzare profitti e il proprio valore, non per licenziare i loro dipendenti.
E LA COERENZA CON IL DECRETO POLETTI?
Al di là dei dettagli legislativi che il Governo vorrà dare al contratto a tutele crescenti, occorre ricordare che la nuova normativa dovrà, per essere efficace, risultare coerente con i provvedimenti già in vigore. Il Governo a maggio ha liberalizzato i contratti a tempo determinato rendendoli una specie di periodo di prova di tre anni. Si consentono, infatti, fino a cinque rinnovi nell’arco di tre anni senza che le imprese debbano specificare le cause di tali proroghe in un contratto che continua a essere a tempo determinato.
Qualora il contratto a tutele crescenti diventasse legge, sarà perciò necessario rimettere mano a questo primo provvedimento del Governo Renzi, rendendo meno flessibile l’utilizzo, protratto nel corso del tempo, dei contratti a tempo determinato. Non possiamo immaginare un giovane che viene prima assunto per un totale di tre anni a termine con cinque contratti che durano sei mesi ciascuno e che poi debba iniziare un nuovo rapporto di lavoro con il contratto a tutele crescenti. Un mercato del lavoro di questo tipo sarebbe davvero di serie B.
È evidente che, con il contratto a tutele crescenti, il contratto a termine può avere senso soltanto dietro specifiche circostanze (lavori stagionali, imprese a termine o grandi eventi come l’Expo). In circostanze normali, si deve entrare nel mercato del lavoro subito con il contratto a tutele crescenti e non con il contratto a tempo determinato.
LA FALSA STRADA DEGLI INCENTIVI FISCALI
Non è possibile pensare di rimediare alle conseguenze del decreto Poletti limitandosi a incentivare fiscalmente il contratto a tutele crescenti. Un’operazione di questo tipo innanzitutto trasformerebbe una riforma a costo zero – fattibile indipendentemente dalla Legge di stabilità che il Governo si appresta a varare – in una potenzialmente molto costosa (senza contare un’eventuale riforma degli stessi ammortizzatori sociali). Questo indebolirebbe la credibilità stessa dell’operazione. Un datore di lavoro prima di assumere con un contratto a tempo indeterminato si chiederebbe: quanto durerà l’incentivo fiscale? In secondo luogo, gli studi che hanno valutato gli incentivi fiscali alla conversione di contratti temporanei hanno generalmente trovato che queste misure si rivelano uno spreco dei soldi dei contribuenti senza apparenti incrementi della quota di contratti a tempo indeterminato. Il fatto è che per rendere davvero vantaggioso un contratto a tempo indeterminato quando i contratti temporanei sono comunque un lungo periodo di prova, gli incentivi fiscali devono essere molto forti.
È opportuno, invece, imporre minimi retributivi (più che vincoli di natura amministrativa che appesantiscono i controlli burocratici) al lavoro parasubordinato e contributi sociali più alti per i contratti a tempo determinato, tenendo conto del fatto che questi lavoratori hanno un rischio più alto di rimanere senza lavoro ed è giusto che l’impresa che utilizza queste tipologie contrattuali si faccia carico più delle altre dei costi dei sussidi di disoccupazione. Anche i minimi retributivi e contributi più alti sono previsti nel disegno di legge Nerozzi. Si noti che non sostituiscono affatto il salario minimo, che copre tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro contratto. Ma su questi aspetti torneremo prossimamente.



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venerdì 19 settembre 2014

A proposito di Lavoro

Vi segnaliamo il commento di Francesco Bizzotto in materia di lavoro.

Lavoro: ok Renzi. Perchè "il rischio di non fare è maggiore di quello di fare male" (Draghi).
Cosa manca? Al solito: le Politiche attive. Pare non le voglia nessuno.
In particolare: non lasciamo solo chi è in difficoltà (sussidio e aiuto a formarsi, cercare e trovare...).
A chi competono? Qui casca l'asino: le Politiche attive competono all'80% alle realtà locali. Che dormono.
Oggi Bersani dice: Quanti soldi mette Renzi sugli ammortizzatori sociali? Dico a Bersani: di soldi ce n'è anche troppi. Nel pubblico (che perde!) e nel privato (che guadagna!). Cosa manca?
Manca la Politica. Si spreca, si fanno cose che non servono (si drena denaro) e c'è un indirizzo unilaterale, sbagliato: ad esempio, nelle Agenzie pubbliche non c'è rapporto con le aziende. E il privato? Serve le aziende big.
C'è altro? Sì. Manca il nuovo: Politiche attive in positivo, fatte prima della crisi aziendale o di relazione; Politiche attive per la Mobilità, per la Dinamica che serve al mercato com'è adesso (vedi Dario Di Vico il 19 settembre scorso sul Corriere: i Piccoli, i Professionisti, le micro imprese avanzano; sono il futuro; teniamoli presente).
Io dico: la Mobilità come possibilità, chances di cambiare e crescere, è l'unica speranza per far uscire Giovani e Donne dal precariato. E solo se questi escono dal precariato le imprese creano, innovano, hanno futuro. Dobbiamo farlo (la Politica) nonostante le imprese.
Questi Giovani e Donne dipendenti - con i Piccoli di Di Vico - sono i protagonisti delle nostre migliori aziende (e io li vedo partner, non fornitori precari). Senza questa eccellenza umana e professionale (invidiata nel mondo, 1° fattore di attrazione di investimenti) il nostro Paese non va da nessuna parte.
Se vanno in piazza, io sono con loro. Anzi. Li invito a farlo, come gli Scozzesi!! Se non lotti, non ti rispettano.
Nota triste. Perchè quindi non si fanno le Politiche attive positive, anticipatrici e fautrici di Mobilità sociale?
Perchè le grandi imprese e i sindacati temono il libero Mercato del Lavoro. Temono i lavoratori. La vecchia cultura d'impresa (individualista) per le solite ragioni. I sindacati perchè, con la Mobilità, la loro prevalente cultura (organizzativa, aziendale, delle tessere) diventa ferro vecchio. Tessere relazioni sociali, di territorio, è altra cosa.
Con il che è dimostrato che dichiararsi liberali non basta proprio. Anzi, è un alibi. Qual è il punto?
Sei per il lbero mercato (per la scelta personale, di rete sociale, responsabile... che io chiamo Rischio) o no?


A queste considerazioni un vecchio amico mi risponde: non hai detto cosa pensi dell'art.18; altre volte hai detto che la Germania investe sulle Politiche attive 10 volte più di noi. Dunque? Rispondo, e mi scuso se su certi tasti batto e ribatto...
1° L'art. 18 (essere rimesso al lavoro da un Giudice, contro il "datore", dopo averci litigato e averlo portato in Tribunale) è roba da disperati. E' una conquista socialista, riformista (che conserva valore se c'è discriminazione) che oggi deve trovare il suo senso positivo in modi nuovi. Penso che questi problemi si devono anticipare, mediare e risolvere sul Territorio. Badiamo alla sostanza (il reddito, il lavoro, la dignità, l'impresa), anzichè al "posto". La nostra società può e deve garantire a tutti un reddito abbinato a strumenti di orientamento, formazione e ricerca / incontro con domande di lavoro. E lo deve fare non in azienda (la grande mamma che non c'è più) ma nel Territorio (la reale e grande impresa - rete). Una novità con un potenziale grandissimo, se gestita. Se il centro garante è il Territorio, l'imprenditore si riprende in toto la libertà di scegliere i collaboratori e di licenziare, e altrettanto può fare il "lavoratore". Udite l'incredibile! Il lavoratore (dipendente o che ha saputo farsi autonomo) inizia a scegliere l'imprenditore con cui collaborare. Magari si organizza e cerca (come dice Ichino) l'investitore (vale anche al Sud!). Il mondo si ribalta un'altra volta. Purchè... ci sia sul Territorio un'Istituzione che dell'impresa - rete si fa carico. Carico di cosa? Accogliere e ricollocare i licenziati, come propongono i nostri esperti di diritto del lavoro? No, non basta. Significherebbe sancire come norma la precarietà e fare da salvagente; vivere in negativo quella che è una possibilità. Le Istituzioni preposte (pubbliche e partecipate da tutti gli interessati) possono anticipare i problemi e favorire le libere scelte reciproche e le giuste relazioni: un nuovo con-correre.
Ora, è chiaro che il silenzio e le prudenze dei capitani d'impresa sull'art. 18 esprimono un timore: "E' meglio avere 3.000 reintegre che 3 milioni di rompiscatole (giovani) che vengono in azienda, mi pesano e se ne vanno!" Questo pensano. Ma, per le imprese (le loro, le nostre imprese) cosa è meglio? Cosa cambierebbe se i lavoratori potessero muoversi e misurarsi, osare e rischiare? La produttività e il senso del fare impresa andrebbero alle stelle.
Se si sostiene questa dinamica - la Mobilità, il vero Mercato, il dialogo tra Offerta e Domanda di lavoro - la disoccupazione scende del 20%, la precarietà diventa temporanea (con i Mini Jobs) e l'art. 18 un ferro vecchio.
Infatti, nella mia visione, l'art. 18 non è da togliere ma da rendere inutile. Da lasciar cadere. Poi ci sono i Mercati...
2° Le risorse. E' vero. Noi investiamo poco sulle politiche attive. Ci son soldi? Mettiamoceli. Ma forse li abbiamo messi per fare altro (controllare, elargire, gonfiare, lamentare). Forse è tempo di cambiare loro destinazione: anzichè dati amministrativi e autoreferenzialità, le strutture pubbliche del caso devono convertirsi a servire i cittadini. E quel che è meravigioso è che nelle strutture da convertire (a Milano) ci sono, con le competenze, anche grandi sensibilità sociali e politiche. Capiscono benissimo (checchè ne pensino Pietro Ichino e Tito Boeri). Cosa manca? Al solito: il coraggio, la determinazione della decisione Politica.
Art. 18 (gesso in azienda) o Istituzione anticipatrice (nel Territorio)? Discutiamone apertamente!
E si facciano due test (uno a Milano, dove le strutture ci sono). Perchè in punta di ragionamento non ne usciamo.

mercoledì 17 settembre 2014

La nuova segreteria nazionale del PD



Di seguito le deleghe assegnate dal segretario ai componenti della Segreteria nazionale del PD:
Vicesegretari: Debora Serracchiani (Infrastrutture), Lorenzo Guerini (Organizzazione)
Enzo Amendola: Esteri
Lorenza Bonaccorsi: Cultura e Turismo
Chiara Braga: Ambiente
Micaela Campana: Welfare e Terzo Settore
Sabrina Capozzolo: Politiche Agricole
Ernesto Carbone: P.A., Innovazione e Made in Italy
Stefania Covello: Mezzogiorno
Andrea De Maria: Formazione
David Ermini: Giustizia
Emanuele Fiano: Riforme Istituzionali, Sicurezza
Valentina Paris: Enti Locali
Francesca Puglisi: Scuola, Università e Ricerca
Alessia Rotta: Comunicazione
Filippo Taddei: Economia e Lavoro
Giorgio Tonini: Federalismo, Territorio, Europa

Altre informazioni sul sito del Partito Democratico

lunedì 15 settembre 2014

Dalla friggitoria della Festa



Grazie a tutti i volontari che hanno lavorato intensamente in questi giorni e queste sere alla friggitoria della Festa dell'Unità e grazie a tutti coloro che sono venuti a trovarci e a cenare al nostro stand.




mercoledì 3 settembre 2014

Decentramento e polemiche inutili

A Milano, sotto il pelo dell’acqua, c’è gran movimento di gruppi, team, tecnostrutture, studiosi che stanno elaborando l’intelaiatura dello Statuto della Città Metropolitana. Il rischio, in mancanza di un dibattito pubblico largo e aperto, è che prevalga una concezione tecno-burocratica del nuovo Ente.
Si è avviata, prima delle vacanze (anche nel Gruppo Petöfi) una discussione sui cosiddetti Municipi, in cui secondo alcuni dovrebbe essere diviso e ripartito amministrativamente il capoluogo. La disputa, che per ora ha avuto solo qualche lampo polemico, può trasformarsi in una inavvertita trappola; ed essere, non ricordandosi che spesso il meglio è nemico del bene, motivo per il non assolvimento delle precondizioni che la legge Delrio pone come necessarie all’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio Metropolitani.
Quelle condizioni occorre che siano soddisfatte in tempo, entro la primavera del 2016, che, possiamo dire, è già dietro l’angolo. Un eventuale slittamento dell’elezione diretta a dopo le prossime elezioni comunali di Milano, non sarebbe privo di effetti gravi e permanenti.
Cosa dice la legge? Il comma 22 recita: “per le Città Metropolitane sotto i tre milioni di abitanti, condizione necessaria perché si possa far luogo a elezione del sindaco e del consiglio metropolitano a suffragio universale è che … si sia proceduto ad articolare il territorio del comune capoluogo in più comuni … ed è altresì necessario che la Regione abbia provveduto con propria legge all’istituzione dei nuovi comuni e alla loro denominazione ai sensi, ecc.” Aggiunge, infine: “La proposta del consiglio comunale deve essere sottoposta a referendum“.
Come si vede sono condizioni molto pesanti e precise. Diverse, ma non per questo non impegnative, sono le condizioni poste alle C. M. con più di tre milioni di abitanti, cioè praticamente Milano. “In alternativa (a quanto sopra) è condizione necessaria … che lo statuto della C. M. preveda la costituzione di zone omogenee e che il comune capoluogo abbia realizzato la ripartizione del proprio territorio in zone dotate di autonomia amministrativa“.
Quindi, per Milano le condizioni poste dalla legge sono due: le zone omogenee (richiamate per prime) e la ripartizione del capoluogo in zone dotate di autonomia amministrativa. Si noti, en passant, il cattivo gusto di chiamare con lo stesso nome le due cose diverse e distinte, ingenerando da subito non piccola confusione!
Le zone omogenee sono un istituto fondamentale perché esse indicano l’esigenza che la C. M. si costituisca non solo sul criterio della divisione, del frazionamento, ma, e direi soprattutto, sul principio dell’aggregazione: risparmi economici, efficienza, policentrismo sono risultati legati di più all’esigenza dell’accorpamento che non a quella della divisione e dello smembramento. E ciò vale per il capoluogo quanto per il resto del territorio.
Ora, se zone omogenee devono esserci, chi può negare che Milano sia essa già da sola una zona omogenea? E che almeno in quanto tale abbia bisogno di una sua unità anche simbolica e di una rappresentanza istituzionale unitaria? Quindi, anche solo da questo punto di vista, pensare tout court all’abolizione del Municipio di Milano, stando alla stessa lettera della legge, pare un non senso, come giustamente e vivacemente ha già notato Giancarlo Consonni.
Andiamo alla seconda condizione. È da rilevarsi che, sempre per le C.M. sopra i tre milioni di abitanti (Milano), la legge non parla più di nuovi comuni, ma di zone con autonomia amministrativa. Che vuol dire? L’autonomia amministrativa non può essere confusa con l’autonomia politica e istituzionale. I nuovi comuni, previsti per le C. M. al di sotto dei tre milioni di abitanti, realizzano essi sì un’autonomia politico-istituzionale, e per la loro istituzione è previsto un iter, come abbiamo notato sopra assai complesso e impegnativo; le zone in cui deve invece articolarsi la città capoluogo delle C.M. sopra i tre milioni di abitanti (Milano) invece sono tutt’altra cosa.
L’autonomia amministrativa delle zone si realizza, infatti, entro limiti e perimetri predefiniti da una deliberazione dello stesso comune capoluogo. Cioè il comune capoluogo stabilisce (non autoritariamente, si spera) quali sono gli ambiti e le funzioni, e quindi i mezzi entro cui si realizza l’autonomia amministrativa. Tale autonomia viene esercitata da parte delle zone gestendo liberamente il proprio bilancio e assumendo decisioni nelle materie e funzioni che sono state oggetto di delega, cioè facendo scelte che rispondano più direttamente ai bisogni dei propri quartieri e alle domande dei cittadini della propria zona. Questa è l’”autonomia amministrativa” delle zone prevista dalla legge, non la creazione di nuovi comuni o municipi.
Naturalmente, su quali e quante siano le funzioni su cui deve esercitarsi l’autonomia delle zone, è tutto da discutersi. Ma è proprio questo che dovremmo fare. Ed è facendo questo che si potrebbero misurare una concezione più avanzata, ma realistica, graduale e sperimentale di decentramento e una più conservatrice e gattopardesca, volta a non cambiare niente, a perpetuare una storia fallimentare qual è quella del decentramento milanese. Ed è su questo che dovremmo fare battaglia politica, altro che straparlando di abolizione del Comune di Milano!
Pensare oggi di definire un progetto completo, chiavi in mano, non di decentramento amministrativo ma di creazione di nuovi comuni, che la legge non ci chiede, è una chiacchiera, un’idea astratta che non ha alcuna possibilità in concreto di andare avanti. Ha però la capacità, può essere cioè un buon pretesto, per bloccare un percorso concreto di costruzione del decentramento amministrativo di Milano. Nello stesso tempo un vuoto straparlare comporta il rischio di far perdere tempo e far saltare l’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio Metropolitani, rinviando il ripristino della sovranità popolare alle calende greche.
Per finire. Ho letto l’articolo qui pubblicato del consigliere di zona Giacomo Selmi. È tutto rivolto a criticare un intervento di Giancarlo Consonni su la Repubblica. Non voglio fare il difensore d’ufficio di nessuno e tanto meno di Consonni che saprà bene, se lo desidera, chiarire il suo pensiero e correggere le inaccettabili storpiature. Il fatto però è che se vogliamo discutere e confrontarci non dobbiamo creare ad arte e per il nostro comodo falsi bersagli. Per altro non escludo che il Selmi sia anche in buona fede, ma di quello che lui attribuisce a Consonni nulla di sostanziale è vero.
Consonni afferma, come dicevo io prima e come lo stesso Selmi pare ammetta, che la vicenda del decentramento milanese è sostanzialmente un fallimento. Ma da ciò non ne trae la conclusione che occorra azzerare le zone e abolire il decentramento. Ma dove sta scritto? Nello stesso articolo di Repubblica egli sostiene: “Ogni abitante della Città Metropolitana è interessato da almeno tre livelli relazionali su cui si definiscono anche le appartenenze/identità: il luogo in cui abita (con un orizzonte esteso al quartiere); la città (o cittadina, o paese) in cui in diversa misura si riconosce; la metropoli in cui esplica comunemente le sue attività nell’arco delle 24 ore. Ognuna di queste appartenenze/identità chiede di essere rappresentata politicamente, anche perché ad ognuna di esse corrispondono ambiti di polarizzazione dei problemi che il governo locale è chiamato ad affrontare“. Quindi egli dice che ci sono tre livelli di appartenenza/identità a cui devono corrispondere tre livelli politico-amministrativi: la zona (o quartiere), la città, la metropoli. Tutti e tre necessari. Dov’è l’abolizione delle zone? La cosa su cui veramente Consonni polemizza è l’idea bislacca che si possa abolire il Comune di Milano, o come ho sentito dire io stesso da qualcuno che ha evidentemente sommo sprezzo del ridicolo, che si debba “radere al suolo Palazzo Marino”.
Allora, io dico, a scanso di equivoci, due cose: primo, si legga bene la legge e si cerchi per tempo di ottemperare alle precondizioni che essa effettivamente pone, e non ad altre, in modo di andare nel 2016 all’elezione diretta del Sindaco metropolitano e del Consiglio; secondo, inizi finalmente una discussione concreta che miri a definire gli ambiti e le funzioni che il Comune di Milano deve delegare alle Zone perché che si attui l’autonomia amministrativa prevista dalla legge. Si confrontino a tale scopo proposte e progetti concreti di decentramento in termini di funzioni, finanziamenti e personale da assegnare alle zone. E lo si faccia, gettando un occhio, se è possibile, al calendario, che ci pone una scadenza tassativa, primavera del 2016: se essa salta non avremo né nuovo decentramento, né elezione diretta di niente.