di Fabrizio Forquet
Realtà e rappresentazione. La prova di forza nel Pd prende la scena, ma rischia di far dimenticare quello che conta. La riforma elettorale che il Parlamento si avvia ad approvare è una rivoluzione per il sistema politico italiano: garantisce quella governabilità decisiva per le riforme e quindi per il rilancio dell'economia, attribuisce all'elettore la scelta diretta su chi governa, semplifica il sistema dei partiti (con le dovute tutele da garantire all'opposizione), toglie alibi ai governi sui risultati del proprio operato.
La discussione sulla percentuale di eletti con le preferenze in questo contesto non può che rivelarsi per quello che è: una strumentalizzazione politica legata alla battaglia per il Quirinale e agli equilibri nel Pd. Tra gli oppositori dell'Italicum ci sono veri galantuomini, ma questa loro battaglia è il simbolo di una cultura politica incentrata sulla politics, sui rapporti di forza tra partiti e gruppi, e avara di policies, di riforme concrete per il buon funzionamento della comunità.
Una politica dalla memoria corta. Che dimentica troppo facilmente quando le preferenze erano il simbolo del male del sistema dei partiti. La fine della prima Repubblica è cominciata da un referendum contro le preferenze, considerate strumento infetto del voto di scambio e del malaffare. Esagerazioni allora, esagerazioni oggi. In entrambi i casi battaglie condotte in nome della “vera democrazia” e della “morale della politica”, valori sbandierati pretestuosamente e scarsamente praticati. Astrazioni, che fingono di ignorare la realtà che le preferenze - nelle elezioni in cui sono previste - sono utilizzate da meno di due elettori su dieci al Nord e da sei su dieci al Sud. Un dato su cui ognuno può trarre le sue conclusioni.
Memoria corta, cortissima. Che spinge alcuni a dimenticare il proprio voto a favore del Porcellum, cioè della lista bloccata che più bloccata non si può. Ipocrisia che porta a ignorare il salto in avanti nel rapporto diretto tra elettore ed eletto che l'Italicum comporta rispetto a quel sistema. Il modello sostenuto da Renzi lascia infatti spazio alle preferenze tranne che per i capilista nei cento collegi che sono scelti dai partiti. Senonché questi capilista sono indicati sulla scheda e sono, quindi, proprio i candidati su cui più direttamente cade la scelta dell'elettore. Per capirsi: se il Pd nel mio collegio sceglie Al Capone come capolista, e io elettore mi ritrovo Al Capone sulla scheda, è probabile che voterò piuttosto il candidato più credibile di un altro partito, con buona pace del candidato bloccato.
Ma il danno principale di questo modo di fare politica è proprio nel costringere il dibattito su questioni davvero marginali, facendo perdere di vista ciò che conta. Sono 20 anni che il sistema politico italiano è ostaggio di una logica di coalizione che si è rivelata fallimentare. Se abbiamo accumulato un ventennio di ritardo sul fronte delle riforme è perché i vari governi che si sono alternati sono rimasti vittime delle divisioni interne: dal Berlusconi 1, affossato dalla divergenza con la Lega sulle pensioni, al Prodi 2, vero simbolo con la sua dis-Unione dell'inconcludenza del sistema delle coalizioni, fino all'ultimo Berlusconi affossato dalle scissioni e dalle liti interne ancor prima che dalla crisi dell'euro. Pensioni, lavoro, burocrazia, fisco: ogni riforma ha trovato via via i suoi sostenitori e i suoi oppositori negli stessi partiti della maggioranza. L'esito è stato inevitabile: o non se ne è fatto niente o se ne è approvata una versione tanto pasticciata da risultare controproducente.
Il premio di maggioranza alla lista che supera il 40%, con la possibilità di un ballottaggio se nessuno raggiunge quella soglia, significa superare quella fabbrica di immobilismo. Vince un partito e quel partito ha la responsabilità chiara davanti agli elettori di quello che fa o non fa. Si possono chiamare in causa mille termini anglosassoni: accountability, delivery, ma il senso più vero è che si pone fine ai poteri di veto delle minoranze, restituendo alle “politiche” il ruolo che compete loro rispetto a una “politica” che è solo lotta tra gruppi e fazioni.
Si sostituirà la tirannia delle minoranze con un eccesso di predominio della maggioranza? Difficile sollevare questo rischio in modo credibile in un Paese ricco di bilanciamenti, fino all'immobilismo, come è l'Italia. E tuttavia è anche questa una riflessione da fare. Il riformismo non può fermarsi con l'Italicum: regolamenti parlamentari, commissioni di garanzia, ruolo delle oppposizioni, legge sui partiti, sono tutti cantieri da aprire al più presto. Ma questo è il contributo serio che una politica davvero preoccupata del bene del Paese deve offrire, la bagarre sui capilista è melodramma. E non se ne sente davvero alcun bisogno.