A Milano, sotto il pelo dell’acqua, c’è gran movimento di gruppi, team, tecnostrutture, studiosi che stanno elaborando l’intelaiatura dello Statuto della Città Metropolitana. Il rischio, in mancanza di un dibattito pubblico largo e aperto, è che prevalga una concezione tecno-burocratica del nuovo Ente.
Si è avviata, prima delle vacanze (anche nel Gruppo Petöfi) una discussione sui cosiddetti Municipi, in cui secondo alcuni dovrebbe essere diviso e ripartito amministrativamente il capoluogo. La disputa, che per ora ha avuto solo qualche lampo polemico, può trasformarsi in una inavvertita trappola; ed essere, non ricordandosi che spesso il meglio è nemico del bene, motivo per il non assolvimento delle precondizioni che la legge Delrio pone come necessarie all’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio Metropolitani.
Quelle condizioni occorre che siano soddisfatte in tempo, entro la primavera del 2016, che, possiamo dire, è già dietro l’angolo. Un eventuale slittamento dell’elezione diretta a dopo le prossime elezioni comunali di Milano, non sarebbe privo di effetti gravi e permanenti.
Cosa dice la legge? Il comma 22 recita: “per le Città Metropolitane sotto i tre milioni di abitanti, condizione necessaria perché si possa far luogo a elezione del sindaco e del consiglio metropolitano a suffragio universale è che … si sia proceduto ad articolare il territorio del comune capoluogo in più comuni … ed è altresì necessario che la Regione abbia provveduto con propria legge all’istituzione dei nuovi comuni e alla loro denominazione ai sensi, ecc.” Aggiunge, infine: “La proposta del consiglio comunale deve essere sottoposta a referendum“.
Come si vede sono condizioni molto pesanti e precise. Diverse, ma non per questo non impegnative, sono le condizioni poste alle C. M. con più di tre milioni di abitanti, cioè praticamente Milano. “In alternativa (a quanto sopra) è condizione necessaria … che lo statuto della C. M. preveda la costituzione di zone omogenee e che il comune capoluogo abbia realizzato la ripartizione del proprio territorio in zone dotate di autonomia amministrativa“.
Quindi, per Milano le condizioni poste dalla legge sono due: le zone omogenee (richiamate per prime) e la ripartizione del capoluogo in zone dotate di autonomia amministrativa. Si noti, en passant, il cattivo gusto di chiamare con lo stesso nome le due cose diverse e distinte, ingenerando da subito non piccola confusione!
Le zone omogenee sono un istituto fondamentale perché esse indicano l’esigenza che la C. M. si costituisca non solo sul criterio della divisione, del frazionamento, ma, e direi soprattutto, sul principio dell’aggregazione: risparmi economici, efficienza, policentrismo sono risultati legati di più all’esigenza dell’accorpamento che non a quella della divisione e dello smembramento. E ciò vale per il capoluogo quanto per il resto del territorio.
Ora, se zone omogenee devono esserci, chi può negare che Milano sia essa già da sola una zona omogenea? E che almeno in quanto tale abbia bisogno di una sua unità anche simbolica e di una rappresentanza istituzionale unitaria? Quindi, anche solo da questo punto di vista, pensare tout court all’abolizione del Municipio di Milano, stando alla stessa lettera della legge, pare un non senso, come giustamente e vivacemente ha già notato Giancarlo Consonni.
Andiamo alla seconda condizione. È da rilevarsi che, sempre per le C.M. sopra i tre milioni di abitanti (Milano), la legge non parla più di nuovi comuni, ma di zone con autonomia amministrativa. Che vuol dire? L’autonomia amministrativa non può essere confusa con l’autonomia politica e istituzionale. I nuovi comuni, previsti per le C. M. al di sotto dei tre milioni di abitanti, realizzano essi sì un’autonomia politico-istituzionale, e per la loro istituzione è previsto un iter, come abbiamo notato sopra assai complesso e impegnativo; le zone in cui deve invece articolarsi la città capoluogo delle C.M. sopra i tre milioni di abitanti (Milano) invece sono tutt’altra cosa.
L’autonomia amministrativa delle zone si realizza, infatti, entro limiti e perimetri predefiniti da una deliberazione dello stesso comune capoluogo. Cioè il comune capoluogo stabilisce (non autoritariamente, si spera) quali sono gli ambiti e le funzioni, e quindi i mezzi entro cui si realizza l’autonomia amministrativa. Tale autonomia viene esercitata da parte delle zone gestendo liberamente il proprio bilancio e assumendo decisioni nelle materie e funzioni che sono state oggetto di delega, cioè facendo scelte che rispondano più direttamente ai bisogni dei propri quartieri e alle domande dei cittadini della propria zona. Questa è l’”autonomia amministrativa” delle zone prevista dalla legge, non la creazione di nuovi comuni o municipi.
Naturalmente, su quali e quante siano le funzioni su cui deve esercitarsi l’autonomia delle zone, è tutto da discutersi. Ma è proprio questo che dovremmo fare. Ed è facendo questo che si potrebbero misurare una concezione più avanzata, ma realistica, graduale e sperimentale di decentramento e una più conservatrice e gattopardesca, volta a non cambiare niente, a perpetuare una storia fallimentare qual è quella del decentramento milanese. Ed è su questo che dovremmo fare battaglia politica, altro che straparlando di abolizione del Comune di Milano!
Pensare oggi di definire un progetto completo, chiavi in mano, non di decentramento amministrativo ma di creazione di nuovi comuni, che la legge non ci chiede, è una chiacchiera, un’idea astratta che non ha alcuna possibilità in concreto di andare avanti. Ha però la capacità, può essere cioè un buon pretesto, per bloccare un percorso concreto di costruzione del decentramento amministrativo di Milano. Nello stesso tempo un vuoto straparlare comporta il rischio di far perdere tempo e far saltare l’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio Metropolitani, rinviando il ripristino della sovranità popolare alle calende greche.
Per finire. Ho letto l’articolo qui pubblicato del consigliere di zona Giacomo Selmi. È tutto rivolto a criticare un intervento di Giancarlo Consonni su la Repubblica. Non voglio fare il difensore d’ufficio di nessuno e tanto meno di Consonni che saprà bene, se lo desidera, chiarire il suo pensiero e correggere le inaccettabili storpiature. Il fatto però è che se vogliamo discutere e confrontarci non dobbiamo creare ad arte e per il nostro comodo falsi bersagli. Per altro non escludo che il Selmi sia anche in buona fede, ma di quello che lui attribuisce a Consonni nulla di sostanziale è vero.
Consonni afferma, come dicevo io prima e come lo stesso Selmi pare ammetta, che la vicenda del decentramento milanese è sostanzialmente un fallimento. Ma da ciò non ne trae la conclusione che occorra azzerare le zone e abolire il decentramento. Ma dove sta scritto? Nello stesso articolo di Repubblica egli sostiene: “Ogni abitante della Città Metropolitana è interessato da almeno tre livelli relazionali su cui si definiscono anche le appartenenze/identità: il luogo in cui abita (con un orizzonte esteso al quartiere); la città (o cittadina, o paese) in cui in diversa misura si riconosce; la metropoli in cui esplica comunemente le sue attività nell’arco delle 24 ore. Ognuna di queste appartenenze/identità chiede di essere rappresentata politicamente, anche perché ad ognuna di esse corrispondono ambiti di polarizzazione dei problemi che il governo locale è chiamato ad affrontare“. Quindi egli dice che ci sono tre livelli di appartenenza/identità a cui devono corrispondere tre livelli politico-amministrativi: la zona (o quartiere), la città, la metropoli. Tutti e tre necessari. Dov’è l’abolizione delle zone? La cosa su cui veramente Consonni polemizza è l’idea bislacca che si possa abolire il Comune di Milano, o come ho sentito dire io stesso da qualcuno che ha evidentemente sommo sprezzo del ridicolo, che si debba “radere al suolo Palazzo Marino”.
Allora, io dico, a scanso di equivoci, due cose: primo, si legga bene la legge e si cerchi per tempo di ottemperare alle precondizioni che essa effettivamente pone, e non ad altre, in modo di andare nel 2016 all’elezione diretta del Sindaco metropolitano e del Consiglio; secondo, inizi finalmente una discussione concreta che miri a definire gli ambiti e le funzioni che il Comune di Milano deve delegare alle Zone perché che si attui l’autonomia amministrativa prevista dalla legge. Si confrontino a tale scopo proposte e progetti concreti di decentramento in termini di funzioni, finanziamenti e personale da assegnare alle zone. E lo si faccia, gettando un occhio, se è possibile, al calendario, che ci pone una scadenza tassativa, primavera del 2016: se essa salta non avremo né nuovo decentramento, né elezione diretta di niente.