Jobs Act, l’emendamento del governo
Il testo votato dalla commissione Lavoro di Palazzo Madama che prevede, tra l’altro, anche il contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti
Ecco di seguito l’emendamento 4.1000 al ddl di delega al governo (S1.428) per la formulazione del decreto sul lavoro, il cosiddetto «Jobs Act».
Il testo presentato dal governo è stato approvato dalla commissione Lavoro del Senato. L’esecutivo, secondo quanto indicato nell’emendamento, dovrà elaborare entro sei mesi il decreto legislativo che prevede, tra l’altro, il contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti, lo strumento che di fatto supera le tutele previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori
«Art. 4. – (Delega al Governo in materia di riordino delle forme contrattuali e dell’attività ispettiva).
–Allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi, in coerenza con la regolazione comunitaria e le convenzioni internazionali:
a) individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime tipologie contrattuali;
b) previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio;
c) revisione della disciplina delle mansioni, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento;
d) revisione della disciplina dei controlli a distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore;
e) introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano sociale;
f) previsione della possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali, in tutti i settori produttivi, attraverso la elevazione dei limiti di reddito attualmente previsti e assicurando la piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati;
g) abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative;
h) razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva, attraverso misure di coordinamento ovvero attraverso l’istituzione, ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, di una Agenzia unica per le ispezioni del lavoro, tramite l’integrazione in un’unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS e dell’INAIL, prevedendo strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle ASL e delle ARPA.».
(cliccare sull'immagine per ingrandire)
L'articolo 18 e il marketing politico - di Ilvo Diamanti (La Repubblica, 23 settembre 2014).
Il disegno di legge sul lavoro, approvato, nei giorni scorsi, in Commissione al Senato, rispetta una priorità del governo. Ma l’ipotesi di superare l’articolo 18, in particolare, risponde a un obiettivo politico — prima ancora che economico — di Matteo Renzi. Costruire il suo partito. Post- ideologico e post-berlusconiano. Il post-partito di Renzi. Il PPR oppure il PdR. Che vada oltre il Pd. Il dibattito sull’art. 18, infatti, ha ri-evocato e ri-sollevato antichi steccati. Fra la sinistra e il resto del mondo. Anche se l’art. 18, nella realtà, ormai, è poco utilizzato. Gran parte delle vertenze aziendali aperte su questa base si conclude con un accordo fra le parti. Senza considerare che il segno di questa norma è, quantomeno, ambiguo e ambivalente. Perché esclude ampi settori del mercato del lavoro. Peraltro, i più deboli: gli occupati delle piccole imprese, i precari e gli intermittenti. I giovani.
Non a caso, nel 2003 venne promosso un referendum per superarne i limiti. Per iniziativa di gruppi e soggetti di sinistra. Tuttavia, il valore dell’articolo 18 è ad alto contenuto simbolico. Costituisce, infatti, una sorta di bandiera della Legge 300. Lo Statuto dei lavoratori. Per questo ogni tentativo di metterci mano, non importa in che modo e a quale titolo, suscita tante reazioni. Com’è avvenuto, puntualmente, anche in questa occasione. Proprio per questo Renzi ha deciso di intervenire sull’art. 18. Proprio in questo momento. Al di là dell’efficacia e del contenuto del provvedimento. Perché è utile, funzionale a marcare confini e limiti del “suo” partito. Contro i nemici interni ed esterni.
Penso, peraltro, che egli non abbia in mente di riprodurre l’esperimento di Tony Blair, come molti hanno osservato. Non gli interessa, cioè, costruire un NewPd, più lib che lab. Ma andare “oltre” il Pd e il suo tradizionale bacino elettorale di Centro-Sinistra. Un po’ com’è avvenuto alle recenti elezioni europee, quando il “suo” Pd ha conquistato quasi il 41% dei voti. Quattro su dieci: “orientati al leader”. Circa il 17%, sul totale dei votanti, cioè, ha votato per Renzi piuttosto che in base all’appartenenza al partito (indagine post-elettorale Demos- LaPolis, luglio 2014). E ciò gli ha permesso di sconfinare rispetto ai territori di caccia della sinistra. Non a caso, è risultato primo partito praticamente dovunque, in Italia (con le sole eccezioni di Sondrio, Isernia e Bolzano). Ma soprattutto, ha sfondato nelle province del Nord e nel Nord Est. Dunque, fra i lavoratori autonomi: artigiani e commercianti, tradizionalmente attratti dai forzaleghisti (per echeggiare, una volta di più, Edmondo Berselli). Oltre che fra le componenti sociali popolari: operai e disoccupati. Che alle politiche del 2013 avevano privilegiato il M5s. Renzi, dunque, ha rotto il muro anticomunista. E quello della protesta (anti) politica. Per questo il suo consenso personale, all’indomani delle europee, si è allargato, ben oltre il livello, molto ampio, del voto. Ha raggiunto, cioè, il 74%. Mentre la fiducia nel governo ha sfiorato il 70%. Cioè, oltre il 90% fra gli elettori del Pd, ma tra il 55% e il 60% anche nella base dei partiti di Destra: Fi, Lega e Fdi.
Oggi, però, le cose sembrano cambiate. Dopo l’estate, infatti, il consenso nei confronti del governo e del premier ha subito un brusco e sensibile arretramento (Atlante Politico di Demos, settembre 2014). Superiore a 10 punti. Così, Renzi appare ancora forte, nel Paese. Ma soprattutto nel centrosinistra. Fra gli elettori del Pd resta vicino al 90%. Ma crolla (soprattutto) a destra: nella base di Fi e degli altri partiti di centrodestra (20-30 punti in meno). Oltre che fra gli elettori del M5s (dal 36% a 20%).
Allo stesso tempo, nelle stime di voto, il Pd resta saldamente attestato al 41%. In altri termini, come abbiamo sostenuto nei giorni scorsi, Matteo Renzi oggi appare leader indiscusso del Pd. E del Centro-sinistra. E qui è il problema. Perché, oggi, per la prima volta, dopo molto tempo, fatica a intercettare i consensi di destra. E, sul piano sociale, il voto dei ceti medi del Nord. Che cominciano a mostrare impazienza, in attesa delle riforme promesse. Mentre deve fare i conti con le resistenze di un Parlamento eletto “prima” del suo avvento alla guida del partito e del governo. In particolare, deve affrontare le trappole disseminate dal Pd, ma anche da Fi, come si sta verificando di fronte all’elezione dei due nuovi giudici della Corte Costituzionale. D’altronde, il progetto del PdR si rivolge anche a Fi. È questo il significato del dialogo aperto con Berlusconi. A Renzi non interessa negoziare o federare Fi. Ma svuotarla. Com’è avvenuto con i Centristi e l’Ncd (fra i suggeritori del provvedimento). E ciò spiega le tensioni interne ai parlamentari di Fi, quando si tratta di votare insieme al Pd, come se si appartenesse a un unico soggetto politico. Appunto… Così, per Renzi, l’articolo 18 diventa un’occasione, anzi: l’occasione, per superare le divisioni interne al PdR. Per costringere alla ragione il Pd — e i dissidenti. Per riaprire la comunicazione con la Destra. E soprattutto con gli elettori di Fi. E con le componenti sociali della piccola impresa e del lavoro autonomo del Nord. I forza-renziani (come li ha chiamati Fabio Bordignon). In modo da “isolare” il dissenso dei parlamentari di Fi.
Così Renzi insiste — e insisterà ancora — su argomenti ad alto tasso simbolico, relativi al lavoro e, probabilmente, domani, all’etica (come le unioni civili tra omosessuali). Ma accentuerà ancora la connessione fra comunicazione e politica. Fra governo e linguaggio. Marcando le differenze fra sé e gli altri “politici”. Fra sé e le “burocrazie”. Non solo della pubblica amministrazione, ma anche del Sindacato e di Confindustria. In attesa di potersi, davvero, misurare con gli altri, in nuove elezioni. Quando, come ora, si presenterà più antipolitico di Grillo, più berlusconiano di Berlusconi, più “diretto”, nel rapporto con il “popolo”, rispetto ai leader del suo e degli altri partiti.
Il vero problema, per Renzi, è che, per arrivare al voto con una nuova legge elettorale e con risultati da rivendicare, deve passare attraverso questo Parlamento, misurarsi con questi partiti. Con questi leader. Che, di certo, non si faranno rottamare senza resistere. D’altronde, per agire in Parlamento e per correre alle elezioni, serve un partito. Ma il PdR, per ora, è un partito che non c’è. Certo: ha un volto, uno stile. Un linguaggio. Ma per vincere, per affermarsi: non basta.
Quali tutele? E quanto crescenti? - Tito Boeri e Pietro Garibaldi (da lavoce.info)
È ancora molto lunga la strada della legge delega di riforma del mercato del lavoro. Ma è bene che sin d’ora si discuta nel merito di ciò che ci sarà nei provvedimenti di attuazione, anche in rapporto ai provvedimenti già varati dal Governo Renzi. Iniziamo dal contratto a tutele crescenti.
LA LEGGE DELEGA
L’approvazione dell’articolo 4 della legge delega in commissione al Senato ha messo la riforma del lavoro al centro dell’agenda di Governo. La legge delega, nella versione votata dalla commissione, rappresenta un importante passo in avanti per riformare il mercato del lavoro italiano.
La necessità di risolvere il dualismo nel mercato del lavoro è ben nota ai lettori di questo sito. Con l’emendamento presentato la scorsa settimana, il Governo ha ora aperto la strada ad almeno due importanti riforme “a costo zero”: il contratto a tutele crescenti e il salario minimo. La legge delega riguarda anche altri aspetti dei rapporti di lavoro (tra cui il cosiddetto demansionamento e i controlli a distanza) mentre ha alcune importanti omissioni (quali la rappresentanza dei sindacati e il rapporto fra i diversi livelli di contrattazione). Trattandosi di una legge delega, il testo si limita a enunciare principi generali senza entrare nei dettagli della riforma. Sappiamo bene che nella legislazione del lavoro questi dettagli sono fondamentali.
Per parlare di vera e propria riforma dovremo perciò aspettare 1) l’approvazione del testo finale in aula al Senato e poi in commissione e aula alla Camera; 2) il successivo licenziamento dei decreti delegati da parte del ministro del Lavoro. Bene comunque che sin d’ora si discuta nel merito di ciò che ci sarà nei provvedimenti di attuazione della legge delega in rapporto anche ai provvedimenti in materia di lavoro varati nei mesi passati dal Governo Renzi. Cominceremo dal contratto a tutele crescenti per poi occuparci di salario minimo e di contrattazione.
IL CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI…
Il testo di legge delega fa riferimento a un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti per i nuovi assunti. Si tratta di un principio e un’idea su cui ci siamo personalmente impegnati su questo sito da quasi dieci anni (si vedano “Il testo unico del contratto unico“, “Tutti i vantaggi del contratto unico” ed il libro “Un Nuovo contratto per tutti“, edizioni Chiare Lettere). Occorre però essere molto attenti ai dettagli. Il testo non specifica ancora in alcun modo di quali tutele si parli e di come le stesse tutele varieranno con l’anzianità di servizio. Alcuni esponenti della maggioranza (appartenenti per lo più al Ncd) sostengono che il nuovo contratto contemplerà il reintegro soltanto per il licenziamento discriminatorio ed escluderà il reintegro in caso di licenziamento per motivi economici, sostituito completamente da un indennizzo monetario. Il Partito democratico sembra invece spaccato al suo interno tra coloro che auspicano che il nuovo contratto mantenga, a una certa anzianità di servizio, anche la reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa e coloro che sostengono che il nuovo contratto non debba considerare la cosiddetta “reintegra” o “tutela reale” oggi offerta dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ai dipendenti a tempo indeterminato di imprese con più di 15 addetti, fatto salvo il caso di licenziamento discriminatorio.
…IL CONTRATTO UNICO DI INSERIMENTO
La nostra personale posizione è riassunta nel disegno di legge sottoscritto dal senatore Paolo Nerozzi (e altri cento senatori) nel 2010 e poi presentato anche alla Camera da Pier Paolo Baretta. Il disegno di legge istituisce il “contratto unico di inserimento”. Si tratta di un contratto a tempo indeterminato fin dalla sua stipula con tutele crescenti. Il contratto prevede due fasi che si succedono automaticamente a tre anni dalla stipula, senza alcun atto amministrativo o conversione.
La fase di inserimento – che nella nostra proposta dura tre anni – e la fase di stabilità. Nella fase di inserimento, il reintegro è concepito soltanto per il licenziamento discriminatorio, mentre il licenziamento economico è consentito dietro un indennizzo pari a cinque giorni lavorativi ogni mese di anzianità aziendale, raggiungendo così sei mesi di salario dopo tre anni di anzianità. Nella fase di stabilità vige la normativa vigente, inclusa la reintegra nelle imprese con più di 15 dipendenti.
Riteniamo fondamentale che la fase di inserimento non sia inferiore a tre anni e che preveda un congruo indennizzo. L’errore più grande che si può commettere è quello di considerare la fase di inserimento come una semplice estensione del periodo di prova. In quel caso, il lavoratore potrebbe essere licenziato senza alcun indennizzo. Al tempo stesso, riteniamo che la fase di inserimento possa anche essere estesa oltre i tre anni, con un progressivo aumento dell’indennità da corrispondere al lavoratore in caso di interruzione per motivi economici. Ad esempio, si potrebbe arrivare a una fase di inserimento di sei anni con un indennizzo che arriva al termine di questo periodo a un anno di salario. Siamo profondamente convinti che dopo un periodo di inserimento sufficientemente lungo, le imprese troverebbero comunque poco conveniente interrompere un contratto di lavoro con un lavoratore ormai formato, per di più dovendogli corrispondere un anno di salario. Le imprese vivono per massimizzare profitti e il proprio valore, non per licenziare i loro dipendenti.
E LA COERENZA CON IL DECRETO POLETTI?
Al di là dei dettagli legislativi che il Governo vorrà dare al contratto a tutele crescenti, occorre ricordare che la nuova normativa dovrà, per essere efficace, risultare coerente con i provvedimenti già in vigore. Il Governo a maggio ha liberalizzato i contratti a tempo determinato rendendoli una specie di periodo di prova di tre anni. Si consentono, infatti, fino a cinque rinnovi nell’arco di tre anni senza che le imprese debbano specificare le cause di tali proroghe in un contratto che continua a essere a tempo determinato.
Qualora il contratto a tutele crescenti diventasse legge, sarà perciò necessario rimettere mano a questo primo provvedimento del Governo Renzi, rendendo meno flessibile l’utilizzo, protratto nel corso del tempo, dei contratti a tempo determinato. Non possiamo immaginare un giovane che viene prima assunto per un totale di tre anni a termine con cinque contratti che durano sei mesi ciascuno e che poi debba iniziare un nuovo rapporto di lavoro con il contratto a tutele crescenti. Un mercato del lavoro di questo tipo sarebbe davvero di serie B.
È evidente che, con il contratto a tutele crescenti, il contratto a termine può avere senso soltanto dietro specifiche circostanze (lavori stagionali, imprese a termine o grandi eventi come l’Expo). In circostanze normali, si deve entrare nel mercato del lavoro subito con il contratto a tutele crescenti e non con il contratto a tempo determinato.
LA FALSA STRADA DEGLI INCENTIVI FISCALI
Non è possibile pensare di rimediare alle conseguenze del decreto Poletti limitandosi a incentivare fiscalmente il contratto a tutele crescenti. Un’operazione di questo tipo innanzitutto trasformerebbe una riforma a costo zero – fattibile indipendentemente dalla Legge di stabilità che il Governo si appresta a varare – in una potenzialmente molto costosa (senza contare un’eventuale riforma degli stessi ammortizzatori sociali). Questo indebolirebbe la credibilità stessa dell’operazione. Un datore di lavoro prima di assumere con un contratto a tempo indeterminato si chiederebbe: quanto durerà l’incentivo fiscale? In secondo luogo, gli studi che hanno valutato gli incentivi fiscali alla conversione di contratti temporanei hanno generalmente trovato che queste misure si rivelano uno spreco dei soldi dei contribuenti senza apparenti incrementi della quota di contratti a tempo indeterminato. Il fatto è che per rendere davvero vantaggioso un contratto a tempo indeterminato quando i contratti temporanei sono comunque un lungo periodo di prova, gli incentivi fiscali devono essere molto forti.
È opportuno, invece, imporre minimi retributivi (più che vincoli di natura amministrativa che appesantiscono i controlli burocratici) al lavoro parasubordinato e contributi sociali più alti per i contratti a tempo determinato, tenendo conto del fatto che questi lavoratori hanno un rischio più alto di rimanere senza lavoro ed è giusto che l’impresa che utilizza queste tipologie contrattuali si faccia carico più delle altre dei costi dei sussidi di disoccupazione. Anche i minimi retributivi e contributi più alti sono previsti nel disegno di legge Nerozzi. Si noti che non sostituiscono affatto il salario minimo, che copre tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro contratto.
Ma su questi aspetti torneremo prossimamente.