Articolo di Emilio Vimercati per Arcipelago Milano.
Lo spirito umanitario sociale che favorì la creazione degli Iacp, Istituti Autonomi Case Popolari, si è perso nel tempo. La legge n. 251 del 31 maggio 1903 di iniziativa del veneziano Onorevole Luigi Luzzatti, appartenente alla destra storica, presidente del consiglio e più volte ministro, ideatore delle Banche Popolari, rispondeva a principi di solidarietà e giustizia sociale e interveniva nel sistema delle abitazioni avendo come obbiettivo il bene casa senza un interesse economico volto al profitto. Lo sviluppo degli Istituti che ne è seguito dovette affrontare il nuovo scenario demografico, economico e sociale di quel periodo: Milano, ad esempio, in poco meno di 40 anni passò da 186.000 abitanti del 1860 agli oltre 400.000 dei primi anni del novecento; lo spopolamento delle campagne accompagnò il bisogno di mano d’opera nelle zone industrializzate del nord consumando suolo e ingrossando le periferie di casermoni popolari, le coree si dirà nel secondo dopoguerra. La funzione degli Iacp intesa a risolvere le domande di case dei ceti meno abbienti diventerà un appetitoso potere politico da maneggiare e i partiti, in particolare per trent’anni la Democrazia Cristiana e poi il Partito Socialista, ne faranno un feudo elettorale e clientelare sia nei confronti degli assegnatari sia dell’apparato burocratico, con la complicità un po’ di tutti volta a distribuire equamente alloggi e posti.
Come si impone oggi nelle istituzioni la semplificazione delle sedi decisionali, via il Senato e via le Province, diminuzione dei componenti le assemblee, occorre accorciare la filiera degli organi che si occupano di edilizia pubblica conferendo direttamente in capo ai Comuni gestione e titolarità dei patrimoni eliminando i carrozzoni mantenuti in vita solo per rimuovere e scaricare i fastidi. In sintesi: le Regioni dettano le regole, i Comuni assegnano, le Aziende gestiscono, una tri ripartizione anacronistica che non può funzionare e infatti non funziona: difficoltà di rapporti, competenze disarticolate, interessi separati, autonomia e conservazione, con gli inquilini che per un reclamo sono sballottati da un ufficio all’altro.
Con poche righe contenute nelle tante leggi degli anni ’90, il patrimonio degli Iacp, divenuti Aziende, fu trasferito in capo alle Regioni avendo in più i poteri della riforma del titolo V della Costituzione. È ora confacente decidere di conferire detti patrimoni ai Comuni rimettendo nella loro potestà le decisioni che riguardano i requisiti di assegnazione, i limiti di reddito per l’accesso, la determinazione dei canoni e altro, secondo il principio non faccia la comunità maggiore ciò che può fare o che è naturale faccia la comunità minore. Altresì secondo il principio di sussidiarietà fra Unione Europea e Stati membri, l’attribuzione delle competenze amministrative e delle relative responsabilità deve far capo all’autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini, principio di prevalenza che privilegia la centralità dei Comuni.
Esempio: qual è il problema se per un alloggio pubblico del Monferrato quella comunità decide che l’inquilino versi cento euro al mese e che per un pari alloggio in Oltrepò ne paghi centodieci o novanta, fa scandalo? Decidano i Comuni secondo una equa logica socioeconomica territoriale. O lo devono decidere le Regioni? I Comuni non devono fuggire dal problema ma farsi carico di salvare e non vendere il patrimonio pubblico. Non mancano gli esempi nei paesi del nord Europa dove il settore delle case popolari comunque gestito fa sempre capo ai Comuni stimolati a competere con la cooperazione nel proporre quartieri modello.
Per le Regioni il patrimonio di edilizia residenziale pubblica è un mezzo di potere: ecco perché concentrano. Il conferimento ai Comuni della titolarità dei quartieri popolari significa peraltro una più complessiva e diretta capacità progettuale, di programmazione e d’intervento per la riqualificazione delle periferie urbane. Esempio: io Comune decido di riprogettare il tal quartiere, che è della Regione, gestito dall’Azienda: che senso ha? Alle Regioni resti il compito innanzitutto di ripianare i deficit delle Aziende, poi di stanziare le risorse per nuove opere e vigilare sull’attuazione dei programmi: per far questo non è necessario disporre del patrimonio.
Si conviene che una tale riforma avvenga in modo graduale, tutelando i dipendenti. L’importante è gettare il seme di un rinnovamento avendo chiaro l’obbiettivo finale rivolto a una migliore efficienza della gestione che ora evidenzia un crescendo di insoddisfazione degli inquilini per la non brillante qualità dei servizi oltre che elevati deficit di bilancio simbolo di una esperienza fallita, superata e della necessità di cambiare sistema con una vera sostanziale riforma tornando a perseguire lo scopo sociale delle case popolari.